Scrivo questo post nei giorni immediatamente successivi al mio ritorno da un fantastico giro dell'Islanda, un'isola magnifica che avrei sempre voluto visitare, con il timore che mi sarebbe piaciuta così tanto da decidere di volerci tornare sempre. O chissà, viverci. In effetti, il giro mi ha procurato un'emozione costante di stupore di fronte allo spettacolo della natura: non è neanche un libro di geologia a cielo aperto, ma è un compendio di scienze naturali con incluse le attività di laboratorio, ovviamente tutto a cielo aperto! Tra una cascata e l'altra, tra ambienti che sembravano lunari e altri che sembravano marziani, ma che in fondo dicono che il nostro pianeta offre una tale varietà da lasciare senza fiato, mi ha colpito molto come la vita avesse trovato il modo di adattarsi anche alle condizioni più estreme. La resilienza, insomma. Ecco, l'Islanda è il posto che ti dice che la vita è resiliente e che anche la tua lo è: se la lasci fare, impara ad adattarsi anche alle condizioni più estreme, ai passaggi più complicati, perché alla fine, come amano dire gli islandesi, "þetta reddast", ovvero accettiamo l'incertezza della vita credendo che in qualche modo le cose si sistemeranno. E in Islanda, alla fine, tutto si sistema, in qualche modo. Quali sono però le caratteristiche che rendono la vita così resiliente? E la biofisica computazionale può dire la sua anche in questo ambito? Mi sono documentato perché mi hanno incuriosito anche i batteri che vivono in assenza di luce nelle grotte laviche, oltre a quelli che vivono nelle acque ricche di sali di zolfo, con quell'odore pestilenziale di uova marce. Parliamo quindi di batteri estremofili (che amano l'estremo) e di come facciano a sopravvivere anche in quelle condizioni. Cosa permette a questi batteri di sopravvivere? Naturalmente si tratta di particolari adattamenti delle proteine di cui sono costituiti.