Il congresso dell’European Biophysical Societies’ Association (EBSA) è tornato, e lo ha fatto in grande stile: sotto il sole rovente di Roma, tra le architetture razionaliste dell'Eur, sale affollate e trasporti pubblici che sembravano messi alla prova da un esperimento di termoresistenza urbana. Difficile dimenticare l’edizione svedese del 2023, con le sue giornate lunghe e umide e le pause pranzo a base di lunch-box compostabili. I lunch-box sono stati confermati anche a Roma, ma la vera protagonista è stata l’afa. Un caldo africano che, unito all’entusiasmo dei partecipanti, ha reso l’atmosfera incandescente dentro e fuori le sessioni. Tuttavia, la temperatura, per quanto invasiva, non è stata il punto focale. Il congresso ha mostrato con chiarezza quanto la biofisica sia una disciplina viva, fluida, in costante trasformazione. E quanto le simulazioni, oggi più che mai, siano diventate una lente imprescindibile per esplorare la complessità della vita. Il filo conduttore di molte sessioni è stato il rapporto sempre più stretto tra modellistica computazionale e dati sperimentali. L’impressione, o forse la conclusione, è che simulare non basta. Ma è indispensabile. Si parla molto (a volte troppo) di esascala, reti neurali, modelli generativi e previsioni a risoluzione atomica. Ma il punto è: dove andiamo senza esperimenti?
Nonostante la potenza crescente degli strumenti e l’ottimismo diffuso tra chi lavora con le simulazioni molecolari, il rischio è quello di scivolare in un’autoreferenzialità sterile, perdendo il contatto con la realtà biologica. I risultati più interessanti non vengono tanto dalla finezza del modello in sé, quanto dalle nuove domande che il modello permette di porre, in dialogo con l’esperimento. In questo senso, le simulazioni oggi non sono più solo strumenti per riprodurre dati, ma motori per guidare la ricerca sperimentale, con spirito critico e consapevolezza dei limiti.
Un momento particolarmente significativo, per me, è stata la tavola rotonda sull'insegnamento della biofisica, dove sono stato invitato a raccontare la mia esperienza. Non capita spesso, durante una conferenza scientifica, di potersi confrontare apertamente su ciò che accade in aula più che in laboratorio. Abbiamo parlato di corsi interdisciplinari, di metodi didattici attivi, di ostacoli linguistici e culturali nell’insegnamento in contesti internazionali. Ma soprattutto di una sfida che resta cruciale: raccontare la biofisica non solo come una somma di contenuti, ma come un linguaggio. Un linguaggio ibrido, che prende in prestito concetti dalla fisica, dalla chimica, dalla biologia molecolare e li rimescola per descrivere i fenomeni viventi.
Un momento particolarmente significativo, per me, è stata la tavola rotonda sull'insegnamento della biofisica, dove sono stato invitato a raccontare la mia esperienza. Non capita spesso, durante una conferenza scientifica, di potersi confrontare apertamente su ciò che accade in aula più che in laboratorio. Abbiamo parlato di corsi interdisciplinari, di metodi didattici attivi, di ostacoli linguistici e culturali nell’insegnamento in contesti internazionali. Ma soprattutto di una sfida che resta cruciale: raccontare la biofisica non solo come una somma di contenuti, ma come un linguaggio. Un linguaggio ibrido, che prende in prestito concetti dalla fisica, dalla chimica, dalla biologia molecolare e li rimescola per descrivere i fenomeni viventi.

Quanta fisica è necessaria, oggi, per un biologo che voglia studiare biofisica? E quanta biologia serve a un fisico che voglia varcare il confine delle scienze della vita? Come si può facilitare questo passaggio senza smarrire rigore o motivazione? Una delle idee emerse è che la biofisica, più che una disciplina in senso stretto, sia un’esperienza: un modo di pensare e di fare, che si costruisce in modo collettivo, tra background eterogenei, software open-source, modelli imperfetti ma domande coraggiose. E forse è proprio questa la lezione più importante da trasmettere: non una verità, ma un metodo per cercarla insieme.
Quest'anno ho anche fatto parte della giuria per i poster, e devo dire che è stata un’esperienza entusiasmante. E sfiancante. Parlare con giovani ricercatori e ricercatrici pieni di idee, mentre si cerca di farsi largo in una sala affollata, tra poster attaccati troppo vicini e un caldo umido che neanche l’aria condizionata del Palazzo dei Congressi riusciva a scalfire, è stata una prova di resistenza tanto quanto di attenzione scientifica. Altro momento forte: la cena sociale in una location davvero suggestiva (e, ovviamente, rovente). Lì si è tenuta anche una sessione di discoteca molto apprezzata dai partecipanti. Diciamo che non mi sono limitato a osservare: ho trascinato più di qualcuno in pista. Dopo tutto, anche questo fa parte del networking scientifico, in versione endorfinica.

Ora l’appuntamento è a Berlino, nel 2027. E se per molti sarà una scoperta, per me sarà un ritorno. Ci ho vissuto due anni e mezzo, e me la porto dentro: con il suo mix unico di rigore e anarchia, di ferite storiche e slanci futuristici. Chissà come sarà rivederla da biofisico computazionale, con uno zaino carico di nuove domande e un paio di scarpe comode. Magari, stavolta, senza la giacca sudata.
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