giovedì 11 ottobre 2018

Dal vostro inviato a Chicago, Illinois

The bean, ovvero il fagiolo, una scultura moderna nella
quale si riflette lo skyline di Chicago all'alba.
Sono reduce (è il caso di dire) da un viaggio lampo negli Stati Uniti, per quello che era l'impegno più temuto di questo 2018, ovvero il mio intervento per una Topical Review al congresso annuale della Società per la Ricerca sulle Radiazioni (Radiation Research Society Annual Meeting), che si è tenuto nella splendida Chicago dal 23 al 26 settembre. E mi sembra giusto parlarne qui, non solo per l'interesse che questa esperienza ha suscitato in me, ma anche per condividere una parte forse poco nota del nostro lavoro di ricercatori, una delle tre componenti fondamentali in cui si articola il mio bellissimo mestiere (le altre due sono la didattica e gli incarichi amministrativi).
Premetto che ricevere un invito per parlare ad una conferenza fa sempre un grandissimo piacere, soprattutto perché si ha una buona scusa per un bel viaggio, magari in una città dall'altra parte del mondo, come in questo caso. A Chicago c'ero già stato per l'intera estate del 2009, e mi era piaciuta particolarmente per la sua architettura molto ricercata e per il suo stile di vita: l'idea di tornarci anche solo per qualche giorno mi entusiasmava. La molla che però mi ha fatto scattare con una pronta risposta affermativa è stata, come al solito, la curiosità: avevo una idea della tematica del congresso, ma ero curioso di approfondirla. Naturalmente, andandoci, ho scoperto che l'idea che ne avevo non soltanto era piuttosto vaga, ma anche di una superficialità disarmante. E soprattutto che quello che mi sembrava un bizzarro tentativo di presentare le mie tematiche di ricerca in un ambiente che si occupa di tutt'altro, in realtà aveva molto più senso di quanto credessi. 
Andiamo con ordine. Ho accettato l'invito a novembre del 2017: avevo quindi quasi 10 mesi di tempo per preparare il mio intervento. Con tutti gli strumenti di ricerca a disposizione oggi, non mi è stato difficile reperire alcuni lavori su riviste specializzate che mi hanno permesso di farmi un quadro generale di quanto era stato fatto. Tuttavia non ho trovato tantissimo materiale e sono arrivato a settembre con un canovaccio della mia presentazione che però avrebbe richiesto ancora un bel po' di modifiche.
Il mondo scientifico non è in realtà molto diverso dal mondo dello spettacolo: il successo (o l'insuccesso) dipende anche (o soprattutto), da quanto lo scienziato/artista riesce a incontrare i gusti del pubblico. Per poterlo fare, è però indispensabile conoscere il proprio pubblico. Tutto questo è relativamente facile ad una conferenza nel proprio ambito di ricerca: in fin dei conti, ci si conosce quasi tutti, e si conoscono le reazioni che quella nostra presentazione potranno scatenare. Diverso è il caso di una conferenza nella quale non conosci praticamente nessuno, né sai bene di cosa si parla!
Per fortuna, o forse per merito degli organizzatori (chissà), il mio intervento era programmato al martedì mattina, ma la conferenza cominciava la domenica mattina. Nonostante il panico dettato dal fatto che a meno di 48 ore dal mio intervento non avessi ancora il pieno controllo della situazione (e chi mi conosce sa quanto io possa essere, come si dice, control-freak in questi frangenti), ho deciso che l'approccio migliore era provare a conoscere quello che la mia ansia dipingeva come il mio nemico: il pubblico.
Sono quindi andato alle presentazioni, non tutte: ho scelto accuratamente quelle per le quali avevo più o meno un'idea e poi ho cominciato ad aggirarmi nelle sessioni con i poster, come quella qui a fianco. I poster, rispetto ad una comunicazione orale, sono meno prestigiosi, ma proprio per questo sono spesso realizzati dagli scienziati più giovani: dottorandi e ricercatori alle prime armi. Questo significa che spesso è proprio lì che si capisce in che direzione sta andando la ricerca in quel settore, mentre le comunicazioni orali a volte prevedono anche gli interventi di quelli che, con simpatia, potremmo chiamare "vecchi tromboni", emblemi di quella che fu la ricerca in quel campo ma che ora magari non è più. Nel mio caso puntare sui vecchi tromboni non era una buona idea: la biofisica computazionale, nel loro campo, non era praticamente nulla e il mio compito era proprio spiegare che poteva tornare loro utile. Conclusione: la mia presentazione è stata sistemata e risistemata fino all'ultimo minuto. Di Chicago non avrei visto praticamente nulla se non fosse stato per quella combinazione tra jet-lag e ansia che mi faceva svegliare nel cuore della notte americana e che soltanto una passeggiata all'alba poteva calmare.
Alla fine credo che la presentazione sia andata molto bene, soprattutto perché ho capito che c'è davvero molto da fare in questo campo con la biofisica computazionale. Gli unici articoli che ero riuscito a rimediare riguardavano soprattutto la generazione di onde d'urto al passaggio della radiazione, come quelle rappresentate qui in figura. In realtà questo argomento è piuttosto controverso: meno controversi invece (e decisamente più interessanti, dal mio punto di vista) sono i meccanismi biologici che le terapie a base di radiazione possono innescare. Su quel fronte, in effetti, ci sono territori del tutto inesplorati: penso infatti ai meccanismi di riparo del DNA che sono cruciali sia nel determinare le cause scatenanti dei tumori, sia per capire quali danni si possono arrecare alle cellule cancerose bombardandole con le radiazioni. Ma sono rimasto molto colpito soprattutto dalle ricerche sull'immunoterapia e sulla capacità delle radiazioni di causare una risposta immunitaria in un organismo malato che può combattere un tumore anche molto distante dalla zona irradiata. Si tratta di terapie davvero innovative  e promettenti: alle immunoterapie contro il cancro è stato dedicato il premio Nobel per la medicina assegnato proprio qualche giorno fa a James P. Allison e Tasuku Honjo.
Sarà un po' difficile che la biofisica computazionale riesca a chiarire tutti questi aspetti, ma sono riuscito ad individuarne alcuni (meccanismi di riparo e diffusione di specie chimiche formate dopo l'arrivo della radiazione) sui quali potremmo provare a dire la nostra. Su questo argomento abbiamo deciso di investire in una collaborazione all'interno dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare presente a Trento con il centro TIFPA (Trento Institute for Fundamental Physics and Applications) di cui faccio parte e che ha generosamente finanziato anche il mio viaggio a Chicago. Non mi resta che invitarvi a restare sintonizzati, perché spero proprio di riuscire a far sbarcare la biofisica computazionale in questo territorio frequentato da fisici, biologi e medici. La prossima conferenza annuale della Radiation Research Society è fissata per novembre 2019 a San Diego, in California. Ad agosto 2019 però ci sarà il 16esimo Congresso Internazionale della Ricerca sulle Radiazioni, a Manchester, in Inghilterra. Chissà...

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