"Ho scritto t'amo sulla sabbia" era il titolo di una canzone del 1968, una di quelle che ogni tanto sentivo cantare da persone della generazione dei miei genitori ma che per me avevano ritmi che sapevano di vecchio. Quando ero bambino e anche adolescente però l'immagine era ancora abbastanza forte: scrivere "t'amo" sulla sabbia significa dire che quell'amore è destinato a scomparire molto presto, esattamente alla prima onda o all'alzarsi della marea. Appartenendo anche alla "gente di mare" (questo mese evidentemente in testa mi frullano troppe canzoni), per me la sabbia resta un elemento un po' fastidioso (a Bari spesso si dice "sei come la sabbia nelle mutande") ma affascinante. Da cosa è formata però la sabbia? Principalmente da silice, un composto dell'elemento silicio, che è molto abbondante sul nostro pianeta ma è anche molto utilizzato per costruire i processori dei nostri calcolatori. Il silicio dà anche il nome a questo mio blog, visto che "in silico" si riferisce proprio al tentativo di studiare le proteine, le biomolecole e, in generale, la vita proprio sui nostri calcolatori. E' stato quindi per me abbastanza naturale rimanere affascinato dal progetto MIMOSA, di cui sono entrato a far parte fin dall'inizio e che ora ha maturato la prima pubblicazione da parte del nostro gruppo di ricerca. Tento qui di spiegare il nostro punto di partenza, nella speranza di poter rendere comprensibile quello che stiamo cercando di studiare.
Parto quindi dal progetto MIMOSA, finanziato dall'Unione Europea nell'ambito di un programma FET Open, dove FET sta per Future and Emerging Technologies, mentre l'aggettivo Open si riferisce all'esito completamente ignoto di questo progetto, nel senso che non sappiamo esattamente se sarà realizzabile o meno, ma abbiamo motivo di credere che comunque valga la pena investire del tempo e del denaro in questa avventura. E, per nostra fortuna, lo pensa anche l'Unione Europea. L'avventura consiste nello sfruttamento di una tecnologia emergente, appunto, ovvero i laser al Terahertz (cioè un laser con frequenze di circa 1000 miliardi di cicli al secondo) per determinare le strutture ancora ignote delle proteine. Le strutture delle proteine sono importanti perché consentono di capire cosa accade quando non funzionano o quando funzionano in modo sbagliato generando le malattie più disparate. Il problema, però, è che non sempre è facile determinare queste strutture: di solito si costruiscono cristalli (ma non è un'operazione semplice), oppure si usa la spettroscopia da risonanza magnetica nucleare in soluzione (quando però la proteina in soluzione ha una forma abbastanza ben determinata). Ci sono però tantissime proteine che sfuggono a queste condizioni: alcune perché sono intrinsecamente disordinate, altre perché si trovano in membrana, circondate da molecole idrofobiche che non amano il contatto con l'acqua o con il ghiaccio e quindi sono molto difficili da portare sotto forma di cristalli.
L'idea è di incastrare queste proteine in una gabbia formata da silice, il che non è molto complicato: basta lasciarle in soluzione con acqua e un qualche composto che contenga il silicio (il più semplice è l'acido ortosalicilico ma ce ne possono essere altri) e lasciare che l'acqua evapora. Si formano quindi questi cristalli di silice (somiglia un po' al quarzo) che però al loro interno hanno una proteina intrappolata. Ottenuto questo cristallo, si passa all'analisi con il laser al terahertz che lo distrugge strato per strato ma, allo stesso tempo, permette di ricostruire l'esatta posizione degli atomi che componevano la proteina con una precisione davvero fantastica.
Questa tecnologia prende il nome di Atom Probe Tomography (APT), ovvero Tomografia a sonda atomica: tomografia sta proprio ad indicare la possibilità di determinare l'esatta disposizione dei componenti strato per strato, come se si facesse a fette il cristallo. L'APT è stata messa alla prova su un anticorpo la cui struttura era già nota e ha funzionato perfettamente: da qui l'idea di provare a sviluppare ulteriormente questa tecnologia per studiare anche proteine la cui struttura è nota. Fin qui però le buone notizie, o meglio, fin qui gli studi finora publicati. Il bello però è capire cosa succede alle proteine quando vengono immerse in questa soluzione con la silice: il metodo, infatti, si fonda su alcune ipotesi di lavoro che dovrebbero essere tutte controllate. Prima di tutto, stiamo assumendo che le molecole che contengono silicio siano tutte inerti e quindi non reagiscano con gli elementi presenti nelle proteine. Abbiamo ottimi motivi per ritenere che questa ipotesi sia valida, quindi andiamo avanti. Dobbiamo poi assumere che la presenza di queste molecole contenenti silicio non alteri in maniera significativa la struttura delle proteine e, anzi, queste molecole vadano via via a sostituire l'acqua o altre molecole presenti intorno alla proteina senza rovinarla. E' proprio questa l'ipotesi che abbiamo messo alla prova con le nostre simulazioni: un anticorpo è una molecola molto grossa e molto stabile, per cui si è prestata molto bene al test con la tomografia a sonda atomica. Cosa succederebbe però con proteine più piccole?
A questo scopo abbiamo realizzato alcune simulazioni, con delle proteine piccole ma rappresentative: la prima è l'ubiquitina, una proteina che è un po' come il prezzemolo, ovvero sta dappertutto, da cui appunto il nome. Si tratta di una proteina piccola, ma stabile in soluzione: abbiamo visto che le molecole di acido ortosilicico si disponevano intorno all'ubiquitina, tendevano anche a costruire un bel guscio intorno senza alterarne la struttura. Bello per una tesi di laurea, ma non abbastanza per un lavoro scientifico: abbiamo quindi proseguito i nostri test con una proteina un po' più complicata, la SUMO-1, dove SUMO sta per Small Ubiquitin-like MOdifier, ovvero piccola proteina modificante che somiglia all'ubiquitina. Per noi la parola chiave era appunto ubiquitin-like, ovvero la somiglianza con l'ubiquitina. Infatti la SUMO-1 somiglia all'ubiquitina, ma contiene anche dei pezzi che sono intrinsecamente disordinati. La domanda è: cosa fanno questi pezzi intrinsecamente disordinati in soluzione? E cosa fanno in soluzione quando è presente l'acido ortosilicico, il precursore della nostra sabbia? La risposta è stata che la struttura della proteina non è stata alterata, ma semplicemente l'acido ortosilicico ha un po' rallentato i movimenti dei pezzi disordinati della proteina. Anche questo test, quindi, è andato abbastanza bene.
Terzo e ultimo test: abbiamo preso due pezzi di una proteina che attraversa la membrana, in particolare due eliche: queste eliche però non sono stabili in acqua, perché appunto stanno in membrana e sono quindi idrofobiche. Sia nella soluzione contenente acqua che in quella contenente acido ortosilicico, queste proteine hanno perso la loro struttura. In quelle contenente acido ortosilicico, tuttavia, le strutture sono rimaste un po' più stabili, il che lascia pensare che probabilmente si riuscirebbe a trattenere la struttura di una molecola idrofobica in una soluzione di questo tipo, ma bisognerebbe usare concentrazioni molto elevate oppure altre molecole idrofobiche che possano essere utilizzate per formare la silice. Ovviamente si tratta di un primo piccolo passo e ci sono ancora tante domande aperte, ma intanto abbiamo cominciato a mettere anche la silice in silico, trotterellando...
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