lunedì 11 marzo 2019

Armi computazionali contro l'HIV

La guerra contro l'HIV (virus da immunodeficienza umana) prosegue ormai dalla sua scoperta, avvenuta nel 1983, e dal collegamento scientificamente dimostrato tra il virus HIV e la sindrome da immunodeficienza acquisita, tristemente nota con la sua sigla inglese AIDS. Le terapie antiretrovirali, cioè che bloccano la replicazione del virus all'interno dell'organismo, hanno permesso di ottenere aspettative di vita che erano impensabili fino solo a 15 anni fa. Oggi, una diagnosi di sieropositività non è (più) una condanna a morte, ma una condanna ad assumere dei farmaci che possono avere anche effetti collaterali pesanti e però allungano molto (in linea di principio anche indefinitamente) il periodo tra il contatto con il virus e l'insorgenza della malattia. Naturalmente, a patto che il malato sia consapevole di aver contratto l'infezione, una ragione in più per sottoporsi ai test di sieropositività. La ricerca scientifica ha certamente fatto passi da gigante contro questa terribile malattia, terribile soprattutto per i Paesi più poveri del mondo, ma la guerra al virus dell'HIV è ben lontana dall'essere conclusa. La biofisica computazionale può essere un'arma?

HIV-proteasi con un inibitore legato (in grigio)
Già venti anni fa, uno dei primi banchi di prova del campo allora emergente delle simulazioni molecolari fu l'HIV-proteasi, una proteina molto particolare, in grado di tagliare altre proteine e persino se stessa. Quando il virus dell'HIV infetta una cellula, più o meno fa tutto ciò che un normale virus fa, ovvero sequestra e dirotta i meccanismi che permettono alla cellula di produrre proteine e fa in modo che la cellula produca le proteine necessarie a creare una copia di se stesso. Tutto questo non è facile: i virus sostituiscono il loro codice genetico al nostro e permettono alle cellule di sintetizzare un'unica lunghissima proteina che poi deve essere tagliata nei posti giusti per permettere di ottenere le proteine che sono necessarie per creare altre virus. E' qui che interviene l'HIV-proteasi rappresentata in figura, una proteina che somiglia molto a un granchio con le chele in grado di tagliare i segmenti peptidici, ovvero le sequenze di amminoacidi, proprio là dove è necessario. In pratica una proteina che fa da forbice, cruciale per la replicazione del virus e, proprio per questo, un suo punto debole! Molte terapie antiretrovirali infatti si sono concentrate e tuttora si concentrano sull'HIV-proteasi: bloccarla significa rallentare la diffusione del virus che non riesce a creare copie di se stesso in modo efficiente. 
Il problema delle terapie, spesso, è quello di riuscire però a bloccare un determinato meccanismo senza ledere gli altri: i farmaci che bloccano l'HIV-proteasi sono efficaci, ma hanno anche parecchie controindicazioni. Inoltre non permettono di eradicare il virus, un risultato che ci piacerebbe tanto raggiungere. Tra le terapie, la migliore sarebbe una terapia anticorpale: gli anticorpi infatti sono in grado di riconoscere elementi estranei e distruggere le cellule che li producono, inclusi i virus. Sono proprio gli anticorpi che ci permettono di vincere malattie come l'influenza, che richiedono una risposta specifica del nostro organismo: è il motivo per cui quando ci becchiamo un attacco influenzale possiamo solo combatterne i sintomi (la febbre alta o il mal di testa), ma dobbiamo generalmente riposare e attendere che il nostro sistema immunitario faccia il suo lavoro, producendo gli anticorpi specifici, se non siamo stati abbastanza furbi da vaccinarci prima, con buona pace dei no-vax. Contro l'HIV al momento non esiste vaccino, anche se ci piacerebbe tanto e ci sono tentativi in questa direzione: il nostro organismo non è in grado di produrre anticorpi specifici contro l'HIV, un po' perché l'HIV va a colpire proprio i linfociti T che sono cellule del sistema immunitario, ma soprattutto perché si tratta di un virus racchiuso in un guscio molto complicato e che cambia spesso, per cui il sistema immunitario fa una gran fatica a riconoscerlo. 
Studiare il guscio dell'HIV dal punto di vista computazionale è, al momento, proibitivo, almeno con i metodi che ne descriverebbero il dettaglio atomistico. E' stato fatto un tentativo con il capside, una specie di capsula che contiene esattamente il codice genetico del virus: ne avevo parlato in una puntata precedente del blog, esprimendo anche qualche mio dubbio sulla strategia impiegata e soprattutto sul risultato ottenuto. Qui a lato è rappresentato il virus dell'HIV con all'interno il capside: il guscio più esterno del virus è ancora più complicato del capside, poiché contiene glicoproteine, ovvero proteine legate a zuccheri, che cambiano in continuazione struttura: tra queste, gioca un ruolo cruciale la proteina ENV. E' molto difficile per un anticorpo riconoscere il guscio di un virus se questo è costantemente ricoperto di zuccheri che continuano a muoversi: in fondo, gli anticorpi sono pur sempre oggetti che dovrebbero rispondere in automatico e legarsi, senza alcuna forma di intelligenza, nel posto giusto, o epitopo. Se l'epitopo è costantemente nascosto dagli zuccheri , risulta molto difficile trovarlo e ancora più difficile che gli anticorpi evolvano per attaccarlo. Tuttavia, c'è un punto debole: ogni tanto si formano dei buchi nella trama di zuccheri che protegge il virus. Questi buchi prendono il nome di CONE, un acronimo che sta per epitopi di neutralizzazione occlusi dai carboidrati. Il concetto non è semplice e, non essendo un biologo, mi sto muovendo sulle uova, ma provo a spiegarlo così come l'ho capito: si tratta di possibili epitopi che permetterebbero di neutralizzare il virus. Nei CONE questi epitopi di neutralizzazione sono occlusi dalla presenza degli zuccheri, ovvero dai carboidrati. Se però si forma un buco e un anticorpo riesce a legarsi nei CONE, il virus viene neutralizzato. Come far produrre al nostro organismo anticorpi contro i CONE? Non sarebbe un problema, potremmo sempre iniettarli, se li avessimo però! Quindi: come costruire anticorpi specifici contro i CONE?
A questa domanda ha tentato di rispondere uno studio pubblicato in questi giorni sulla rivista Nature Communications, in cui la biofisica computazionale ha giocato un ruolo importante. Per poter creare anticorpi adatti ad attaccare i CONE nei pochi istanti in cui restano scoperti, i ricercatori hanno cercato di ricostruire il tessuto di proteine env che si trova sotto i CONE. Non è stata un'impresa facile, perché hanno dovuto ricostruire la proteina in un ambiente che non era certamente il suo, cercando di mantenerne però intatta la superficie, come se si trovasse sul guscio esterno del virus dell'HIV. Per poterne studiare le proprietà strutturali e la conformazione della superficie, è stata impiegata la dinamica molecolare, che ha permesso di determinare il tipo di superficie per l'attacco degli anticorpi. Alcune delle previsioni ottenute mediante simulazioni sono state confrontate anche con i dati sperimentali cristallografici relativi e ottenuti per l'occasione, mostrando un ottimo accordo, il che permette di aumentare la nostra fiducia nei campi di forza (o force field) attualmente in uso. Non solo: la strada del disegno razionale di anticorpi specifici contro questi CONE privati degli zuccheri si è dimostrata molto promettente. Effettivamente alcuni anticorpi si legano specificatamente a queste proteine, e sarebbe in linea di principio possibile costruirne alcuni sempre più specifici. Resta da dimostrare che questi anticorpi potrebbero effettivamente approfittare di un "momento di debolezza" nel guscio zuccherino che circonda il virus dell'HIV per attaccarlo e neutralizzarlo, ma il protocollo che mescola esperimenti e simulazioni è certamente un passo avanti importante in questa direzione. Del resto, è una guerra: e in guerra, come in amore, ogni mezzo è lecito. Inclusa la biofisica computazionale.

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