domenica 11 luglio 2021

Assembramenti cellulari

Mentre siamo impegnati ad evitare gli assembramenti per vedere le partite degli europei di calcio, o andarceli a cercare secondo i gusti o le convinzioni (pare che il virus non si diffonda quando gioca l'Italia), vorrei spostare l'attenzione sugli assembramenti all'interno delle cellule. Sì, perché soprattutto in biofisica computazionale studiamo le proteine (o altre macromolecole) in uno splendido isolamento, neanche fossimo l'impero coloniale inglese di fine '800. E non sto parlando della presenza indispensabile degli ioni (le proteine in acqua pura perdono la loro struttura funzionale) o di quella importantissima dei lipidi quando studiamo proteine di membrana, ma del fatto che l'ambiente cellulare è molto affollato e dunque le proteine devono districarsi tra incontri essenziali per dare un senso alla loro stessa esistenza e incontri indesiderati, un po' come facciamo noi nella vita... o sulle spiagge in estate.
Ecco, volendo usare la metafora delle spiagge, potremmo dire che quello che noi studiamo è l'equivalente delle famose scatole di plexiglas in cui volevamo imbrigliarci la scorsa estate per evitare il contagio dal virus e al contempo goderci (si fa per dire) la spiaggia. Studiare il cosiddetto "protein crowding" è però davvero complicato: ne sento parlare da più di dieci anni, ma devo ammettere che spesso ho avuto la sensazione di quello che in inglese chiameremmo "wishful thinking", che in italiano pare si debba tradurre con pensiero illusorio, o pensiero di buon auspicio. Mi sono però imbattuto in un recentissimo e denso articolo affollato di equazioni sul Journal of Chemical Theory and Computation, che offre un nuovo paradigma e una nuova prospettiva in questa direzione.

Il punto è che, al solito, i problemi in biologia sono molto complicati: pretendere di risolverli tutti insieme è assolutamente velleitario. Come nella vita (perché poi di vita si tratta), bisogna procedere per gradi e per piccoli passi. Si tratta di un campo in cui non è possibile trovare principi primi o eleganti quadri teorici di riferimento, come è stato per la relatività di Einstein o la meccanica quantistica. La biologia è, mi perdonino i biologi, "zozza" per definizione: se soltanto proviamo a estrapolare il comportamento di una sola proteina portandola da una situazione "in vivo" (ovvero nella cellula) ad una situazione "in vitro" (ovvero su un vetrino, pronta per un esperimento riproducibile), già rischiamo di alterarla. Figuriamoci poi quando passiamo "in silico", con tutte le approssimazioni che siamo costretti a inserire per studiare questi sistemi su un computer. E lascio perdere il discorso di eventuali equazioni da risolvere alla lavagna, perché quelle permettono solo di studiare i comportamenti generali di un insieme molto grande di oggetti, perdendo di vista quei particolari che però fanno la differenza in biologia. Il punto è proprio qui: l'articolo di cui parlo questo mese è un tentativo di studiare alcune proteine che formano assembramenti in prossimità di alcune superfici. 

Potrebbe sembrare una questione puramente accademica, ma non lo è: le molecole si muovono per diffusione, anche in presenza di meccanismi attivi. Le proprietà di diffusione però dipendono in modo molto forte dall'ambiente circostante. Per comprenderlo, ci basti pensare a noi che vogliamo andare da qualche parte, ad esempio da un angolo all'altro di una piazza. Se la piazza è vuota, possiamo anche permetterci il lusso di essere un po' brilli e puntare l'altro angolo senza neanche troppa convinzione per raggiungerlo. Se però la piazza è affollata in modalità nazionale di calcio che vince una qualunque partita (speriamo sia di buon augurio), dobbiamo usare tutta la nostra determinazione per raggiungere l'altro angolo. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che contano anche le superfici laterali: ad esempio, se sta piovendo, o vogliamo evitare il sole, cammineremo sotto i portici, che potranno diventare affollati, mentre il resto della piazza resterà libero. Tutto questo, per le molecole, significa una migliore (o peggiore) capacità di muoversi nelle cellule, di raggiungere un'altra molecola e rendere efficace o sopprimere un meccanismo biologico. Implicazioni in medicina: praticamente tutte. 

La tecnica computazionale proposta naturalmente non è discesa dall'alto in questo lavoro, ma si tratta dell'evoluzione di un intero pacchetto di simulazione (chiamato SDA, Simulation of Diffusional Association) che era stato già sviluppato dagli stessi autori per simulare il comportamento di molecole che diffondono in presenza di altre molecole. La novità qui sta nella possibilità di considerare la diffusione di strutture proteiche, quindi molecole decisamente grandi e che possono essere inserite tenendo conto anche dei campi elettrici prodotti dagli amminoacidi carichi presenti sulle loro superfici. L'applicazione mostrata nell'articolo riguarda una proteina presente nel bianco dell'uovo (il lisozima), ma riesce a rendere conto dell'assorbimento (o meglio di un assembramento) di queste proteine su superfici di mica e di silice, confrontando anche i risultati ottenuti con i dati sperimentali. Certo, ci sono tanti aspetti da migliorare, ma l'articolo mi è piaciuto anche per l'onestà con cui gli autori (e le autrici, perché per una volta si tratta di una squadra bilanciata in genere) parlano degli aspetti problematici della simulazione. 

Anzitutto, ovviamente il solvente deve essere implicito, però davvero qui non si può fare diversamente e, in ogni caso, la simulazione cerca di rendere conto di tutti gli effetti idrodinamici. Inoltre, le proteine restano praticamente rigide, come se nella diffusione e, soprattutto, nel formare gli assembramenti, avessimo a che fare con tanti manichini che non muovono braccia o gambe, né possono abbracciarsi. Tuttavia questo aspetto potrà essere migliorato in seguito, aggiungendo una parte dinamica che tenga conto anche dei possibili movimenti interni delle proteine. Infine, c'è il problema che le concentrazioni simulate sono decisamente più alte rispetto a quelle comunemente usate negli esperimenti: il confronto con i dati sperimentali è dunque particolarmente complicato. Potrebbe sembrare paradossale: se studiare gli assembramenti è complicato, dovrebbe essere più facile studiare poche proteine e quindi le soluzioni meno concentrate. Il problema è che con soluzioni poco concentrate la probabilità di incontrarsi è talmente bassa che bisogna aspettare mesi per vedere qualcosa di significativo: sarebbe come abbandonare dieci persone decisamente brille in punti a caso del deserto del Sahara e attendere i loro incontri... Fin qui, le cattive notizie. C'è però tanto di buono: il metodo può studiare anche l'assembramento di tipi diversi di proteine, sempre che i problemi di dinamica interna e di concentrazione possano essere affrontati. Inoltre, il software usato per la simulazione è liberamente disponibile: chiunque può provare a dare il proprio contributo. Anche perché, per il momento, questi sono gli unici assembramenti ai quali conviene dedicarsi.

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